Quattro giorni di quarantena hanno segnato il decennale della rivoluzione tunisina ma il divieto di manifestare, a Tunisi e nel resto del paese, non ha fatto che riaccendere le proteste. Il fuoco della rivoluzione non si è ancora spento.
Le rivolte di oggi
Il traballante governo conservatore guidato da Hichem Mechichi ha deciso di usare il pugno di ferro e ha schierato anche i mezzi blindati dell’esercito per far rispettare quello che subito è stato chiamato un “lockdown politico”. Il 20 gennaio, dopo 6 giorni di manifestazioni e scontri, erano già oltre 1000 gli arresti da parte della polizia ma il numero è in crescita e le proteste a oggi (24 gennaio) stanno continuando. Alcune persone sarebbero state rilasciate ma, in molti casi, sono già state emesse condanne severe di carcerazione nei confronti di giovani e giovanissimi arrestati in questi giorni. Intanto continuano le violenze poliziesche, con brutalità nelle strade, irruzioni e arresti all’interno delle abitazioni e l’uso massiccio di candelotti lacrimogeni ha provocato feriti anche molto gravi.
Il governo ha cercato di delegittimare le proteste attraverso i media parlando di vandalismo e spargendo menzogne, mettendo in campo modelli di propaganda ben collaudati nelle democrazie e nelle dittature di tutto il mondo. Il Ministro della difesa tunisino Ibrahim Al-Bartaji ha ipotizzato che potrebbero essere “mani straniere” a dirigere le proteste, mentre il premier Mechichi ha fatto appello ai giovani a restare a casa, perché il governo penserà a risolvere i loro problemi, mentre le proteste rischiano di essere infiltrate da “sabotatori” e “anarchici”.
Sono soprattutto le più giovani e i più giovani a scendere in strada, quelli che erano poco più che bambini nel 2011. La “generazione sbagliata”, la generazione per cui la rivoluzione avrebbe dovuto essere la promessa di una vita diversa da quella dei loro genitori, delle loro sorelle e fratelli più grandi. Per questo si manifesta nel centro di Tunisi, per questo ogni sera si scende in strada nei quartieri periferici della capitale e delle altre grandi città, dove gli scontri sono più duri. In un paese in cui quasi il 40% della popolazione ha meno di 25 anni, circa un terzo dei giovani è disoccupato. Non è però un conflitto generazionale: quella che continua ad allargarsi nella realtà tunisina è una frattura sociale tra popolazione povera, esclusa, diseredata e le classi dominanti. Da questo nasce la nuova ondata di proteste, che si lega ai movimenti del 2018 e del 2016. Ancora una volta l’anniversario della rivoluzione diviene occasione per rimettere al centro quella questione sociale che non ha trovato soluzione con la fine del regime.
La rottura del 2011
Il 14 gennaio 2011 il Presidente della Repubblica di Tunisia Zine El-Abidine Ben Ali fuggiva in Arabia Saudita: erano bastate poche settimane per porre fine a un regime durato 23 anni. L’ondata di proteste che portò alla sua caduta era iniziata il 17 dicembre 2010: quel giorno davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid il giovane ambulante Mohamed Bouazizi si era dato fuoco, come estrema azione di protesta, dopo che la polizia aveva per l’ennesima volta cercato di estorcergli denaro sequestrandogli il carretto e le verdure, suo unico mezzo di sostentamento. Un gesto che aveva catalizzato le tensioni presenti in un società piegata dalla disoccupazione e dall’autoritarismo, in cui i più giovani e i più poveri iniziavano a pagare il conto delle riforme finanziarie, intraprese dal governo intorno al 2000 su pressione del FMI e accelerate in seguito alla crisi del 2008. Si accese così la rivolta contro la dittatura, l’arroganza e la corruzione del potere, per migliori condizioni di vita, per la libertà di associazione e di parola.
Nel 1987 era stato il SISMI, il ramo militare dei servizi segreti italiani, per volere di Craxi e Andreotti, a preparare il colpo di stato “medico” che portò al potere Ben Ali, deponendo il vecchio Bourghiba ritenuto ormai inadeguato alla presidenza. Finalmente l’insurrezione popolare nel 2011 metteva fine alla dittatura.
Quella del 2011 è stata chiamata “rivoluzione dei gelsomini”, una rivoluzione incompiuta. Perché le potenze europee hanno potuto riprendere il controllo sul paese imbrigliando un movimento insurrezionale di massa nelle dinamiche elettorali. Perché troppi esponenti del vecchio regime hanno mantenuto posizioni di potere e si sono riciclati nel nuovo sistema pluripartitico. Perché le aspirazioni di cambiamento sociale profondo e radicale sono state soffocate. La rivoluzione è incompiuta non perché lo dice qualche fazione politica ma perché la fine del regime di Ben Ali non ha significato la fine delle “liste nere” che impedivano ai vecchi dissidenti di accedere a certi lavori, perché l’arroganza della polizia continua mentre le istanze di libertà, di autorganizzazione e di autodeterminazione sono represse, perché le donne nelle zone rurali come nei centri urbani continuano a vivere in condizioni di estremo sfruttamento, perché i giovani continuano a essere schiacciati dalla disoccupazione, a lottare per sopravvivere, oppure costretti a emigrare, o spinti tra le braccia della criminalità organizzata e dei gruppi islamisti.
Tuttavia questo non deve indurre a sminuire l’importanza del movimento insurrezionale che ha rovesciato il regime di Ben Ali. Anche se incompiuta, la rivoluzione tunisina ha avuto una portata epocale, perché la rottura è stata segnata dalla lotta delle classi popolari, che hanno con la propria forza non solo posto fine a una dittatura ma anche organizzato autonomamente in certi casi, come in alcune zone di Tunisi, la gestione dei quartieri. È in questo processo che escono dalla totale illegalità alcune tendenze della sinistra rivoluzionaria mentre altre emergono e si organizzano, si creano movimenti di base, spazi autogestiti, atelier artistici e centri culturali. Nella vivacità di questa fase si creano anche le prime basi di un movimento anarchico tunisino.
La forza dell’esempio spaventa le potenze europee e atlantiche: per questo intervengono in senso controrivoluzionario nei paesi della sponda sudorientale del Mediterraneo, anch’essi scossi agli inizi del 2011 da quell’ondata di rivolte che prese il nome di “primavera araba”. In Libia i bombardamenti e l’intervento di Italia, Francia, Regno Unito e USA azzerano il ruolo delle proteste popolari e favoriscono un innalzamento del conflitto tale da aprire la strada, dopo la caduta di Gheddafi, alla guerra vera e propria per il controllo del paese. In Egitto dopo la rivolta che segna la caduta di Mubarak le potenze regionali e mondiali sostengono, contro ogni prospettiva di liberazione, le diverse forze autoritarie in campo – l’esito è una dittatura militare. La Siria, anch’essa scossa dalle proteste, viene trasformata in un enorme campo di battaglia tra gli stati, un grande gioco, giocato con armi da guerra, in cui sono schiacciate le più vivaci forme di autorganizzazione popolare. Solo l’esperimento politico e sociale del Rojava nel nord della Siria resiste a questa stretta controrivoluzionaria, pur nelle enormi contraddizioni del contesto bellico, grazie alle sue forze di autodifesa, pagando un prezzo altissimo in termini di morti, feriti, profughi, distruzione. Ed è ancora sotto attacco.
La rottura del 2011 ha però una portata più vasta che non deve essere trascurata. La crisi economica del 2007-2008 e le conseguenti politiche antiproletarie e autoritarie adottate a livello globale esasperano la crisi di legittimità del potere politico già in atto da tempo. Mentre sulle sponde sudorientali del Mediterraneo i vecchi sistemi politici autoritari vengono rovesciati, pure nei cosiddetti paesi democratici, di là del mare, come in Grecia, Spagna e Italia, sorgono movimenti di massa che contestano anche molto duramente l’élite politica ed economica. In questi paesi non si verifica una rottura dell’ordinamento, anche perché molti partiti che compongono tali movimenti dipendono proprio dalla continuità del sistema politico. Un vicolo cieco, perché i governi democratici di questi paesi, sempre più autoritari, rimarranno sordi anche alle più semplici rivendicazioni economiche. Si assiste comunque in quel periodo a grandi movimenti, che non solo si scagliano contro le politiche antiproletarie di austerità ma che portano avanti anche istanze alternative, pur se spesso contraddittorie, di gestione dal basso, autogoverno, democrazia diretta.
Un esempio vivo
Oggi, in una globale accelerazione dei processi autoritari, dalle sponde del Mediterraneo continuano ad arrivare segnali inquietanti. Ad Atene a novembre scorso sono state vietate, con la giustificazione della prevenzione del contagio da coronavirus, le manifestazioni per ricordare la rivolta del Politecnico del 1973: chi manifestava è stato picchiato, arrestato, multato, mentre giunge la notizia che sarà creato uno speciale corpo di polizia incaricato di intervenire nelle università. A Istanbul poche settimane fa il governatore del distretto ha vietato, sempre per ragioni sanitarie, le manifestazioni nelle aree interessate dalle proteste antigovernative degli studenti della Università Boğaziçi. In Slovenia, anche qui come misura anticontagio, è vietata e perseguita ogni forma di manifestazione e il ROG una delle principali strutture occupate di movimento nella capitale Ljubljana è stato sgomberato. In Italia la libertà di manifestare è strettamente limitata, molte sono le persone multate per aver partecipato anche a semplici presìdi, mentre in molte città la polizia sta eseguendo sgomberi di spazi occupati e autogestiti. In Francia con una nuova legge si vuole garantire l’impunità della polizia e creare una nuova forza speciale antisommossa.
È in questo quadro generale che anche in Tunisia il governo ha dichiarato la quarantena vietando le manifestazioni per l’anniversario della fuga di Ben Ali e per i giorni successivi, giornate che negli ultimi anni sono sempre diventate un’occasione per riaccendere la protesta sociale. Martedì 12 gennaio il Ministro della salute Fawzi Al-Mahdi aveva annunciato che da giovedì 14 a domenica 17 sarebbe entrata in vigore una quarantena completa su tutto il territorio nazionale per rallentare la diffusione del contagio da coronavirus. Ciò ha significato coprifuoco dalle 16 del pomeriggio alle 6 di mattina, divieto di manifestazioni e chiusura delle scuole e di tutte le attività. Sono ovviamente rimaste attive le industrie del settore petrolifero, chimico e energia, comprese le miniere di fosfato di Gafsa. Da marzo 2020 la Tunisia, che ha subito in autunno una rapida crescita del contagio da coronavirus, mantiene misure di quarantena ma è proprio nei giorni intorno all’anniversario della rivoluzione che tali misure hanno subito una stretta eccezionale. Pur criticando la scelta del governo, la maggior parte delle organizzazioni, compreso il sindacato UGTT, ha rinunciato a ogni manifestazione. C’è chi però è sceso comunque in piazza, scontrandosi anche con la polizia: prima la mattina del 14 gennaio nel centro di Tunisi, nella Avenue Bourghiba simbolo della rivoluzione, poi nei quartieri periferici e in altre città, in particolare a Sousse e a Bizerte. Queste proteste ci riguardano direttamente, sia per il ruolo ingombrante dello stato italiano in Tunisia, sia perché ci ricordano che ovunque è urgente reagire al disastro sociale imposto dai governi.
Dopo dieci anni l’insurrezione tunisina è ancora un esempio e lo è più che mai in tempi in cui la classe lavoratrice, sfruttata e oppressa, è la più colpita dalla pandemia e al contempo la più impegnata ad arginarla. In tempi in cui il ricatto imposto dai padroni – virus o miseria – è più barbaro che mai. In tempi in cui gli spettri autoritari tornano alla ribalta in carne e ossa, il coraggio e la determinazione di chi rovesciò la dittatura in Tunisia è un esempio che sta anche a noi mantenere vivo.
Dario Antonelli